Il potere della relazione
27 Apr 2020

Di Annachiara Rossi, ccordinatrice comunità diurna Parsifal e residenziale In-Dipendenti e Olga Maggioni, educatrice comunità diurna Parsifal e residenziale In-Dipendenti

«Noi educatori di comunità siamo come un’entità astratta: esistiamo, ma difficilmente si parla di noi. E questo non ora, sempre. Facciamo qualcosa che da fuori definiscono in diversi modi: difficile, bello, importante, vocazionale addirittura. Poi però quello che facciamo non lo sa nessuno, o almeno nessuno se ne interessa granché. In realtà va bene così, non è un lavoro che deve stare sotto i riflettori».
Marco Mura

Siamo un’equipe di educatori che lavora all’interno del settore Educare della Cooperativa sociale Energie Sociali, a Verona. Nelle nostre comunità vengono accolti minori inviati dai Servizi Sociali, che vengono presi in carico in una dimensione diurna o residenziale. In seguito ai provvedimenti governativi e regionali per contrastare l’epidemia di COVID 19, questo settore ha visto la chiusura della comunità diurna. Nonostante le speranze iniziali che si trattasse solo di una fase, di una situazione passeggera, ci siamo resi conto velocemente che l’emergenza sanitaria avrebbe cambiato le nostre vite personali e professionali in modo profondo e che si imponeva la necessità di pensare a come affrontare la situazione giorno per giorno, superando rapidamente lo spaesamento dei primi tempi.

Come noi, i nostri ragazzi non hanno capito subito di cosa si trattasse. Hanno sminuito il problema e ci hanno accusati fermamente di essere esagerati, paranoici, ansiosi. Nei primi giorni si sono scontrati con noi con la veemenza che li caratterizza, urlando che dentro la comunità residenziale non ci sarebbero stati, che non potevamo limitare la loro libertà di movimento quando bastava affacciarsi ai balconi per vedere adulti e altri ragazzi della loro età che giravano per la strada. Siamo riusciti a vivere la situazione che ci veniva imposta, con pazienza, accogliendo il loro - e il nostro - turbamento, con la consapevolezza della loro difficoltà a capire la situazione e le loro resistenze nel rifiutare un altro, l’ennesimo, cambiamento di vita e di priorità.

Siamo stati capaci, dopo vari tentativi, di spostare almeno un pezzetto del mondo fuori dalla porta all’interno delle mura delle comunità, incoraggiando e lasciando spazio alle loro iniziative. Abbiamo organizzato feste con tanto di stuzzichini, musica e cocktail analcolici il sabato sera e iniziato a coltivare piantine. Abbiamo allargato gli spazi nel tentativo di permettere a tutti loro di trovare momenti di compagnia e di solitudine a seconda della loro necessità. Abbiamo cercato di creare momenti in cui ciascuno dei nostri ragazzi potesse fare con noi quello che amava fare prima della pandemia: dalla cucina alla scrittura, dalle maschere per il viso al trucco, dalla pittura alle chiacchierate in balcone godendosi il sole.

Abbiamo cercato, educatori e ragazzi, di ricreare dove possibile una routine che permettesse di trovare dei momenti dedicati alla scuola, allo svago, al confronto, allo stare insieme, alla solitudine e alla noia. I nostri ragazzi, proprio quei ragazzi che noi talvolta vediamo così fragili e bisognosi, ci hanno insegnato che possiamo farcela. Al nostro arrivo in turno, ci hanno accolto a volte imbronciati e altre volte, molte volte, con il sorriso, ci hanno messo in movimento il pensiero per poter decidere come attivarci per loro. Oltre a tutte le crisi vissute, al disorientamento per una situazione claustrofobica (lo è per gli adulti, figuriamoci per degli adolescenti che non possono vedere né amici né famiglia), ci hanno saputo mostrare il potere della relazione, il potere dell’esserci e del non mollare nemmeno davanti alle stanchezze fisiche ed emotive più pesanti.

Dall’altra parte ci siamo noi educatori, in un primo momento spaventati dal cambiamento di routine, dalla consapevolezza che le richiese lavorative sarebbero cambiate e che entrare in turno con determinazione e dolcezza sarebbe stato ancora più importante e faticoso di prima. Durante queste settimane, poche volte abbiamo sentito parlare di noi in conferenze stampa e decreti ministeriali, ma come dice Marco Mura:

«Non lavoriamo in un ospedale, è vero, o almeno non in quello del corpo. Lavoriamo sulle loro teste, sulle loro anime. Siamo stanchi e dopo un minuto riiniziamo come se avessimo appena montato in turno. Perché c’è da dare il proprio contributo, ognuno a suo modo: lavorando, con tutti i rischi del caso; stando a casa, ché di noia non è in realtà mai morto nessuno; inventando nuove forme di aggregazione a distanza. Noi educatori stiamo facendo il nostro: esserci». 

In questo momento e in questa esperienza per certi versi così tragica, abbiamo capito che senza il desiderio e la capacità di prenderci cura dell’altro, mantenendo il focus sul nostro ruolo professionale, non siamo nulla. Noi che per lavoro volgiamo lo sguardo verso le persone più deboli, più fragili, abbiamo l’amore a cui appigliarci, in particolar modo in questo momento ma in realtà in ogni istante del nostro quotidiano lavorativo. Non vogliamo fare riferimento a una dimensione di “sentimentalismo”, ma laddove la distanza sociale ci è imposta sia nel lavoro che nelle nostre vite emerge chiaramente il nostro bisogno di contatto, di dialogo, di scambio, di domande e di risposte affidabili e concrete. Questo ce lo insegnano in primo luogo i ragazzi, che ci chiedono di essere adulti autorevoli, in grado di mantenere saldo il nostro compito e ruolo professionale e di non perdere di vista l’apporto educativo e di strutturazione quotidiana che nelle loro vite per molto tempo è mancata. Ci chiedono di sapergli volere bene nel modo di cui in quel momento hanno bisogno; di rispondere prontamente a delle richieste che poco hanno a che fare con una dimensione assistenziale, ma che risuonano maggiormente nelle emozioni, nella cura, nella presenza, nell’attenzione, nell’accoglienza senza riserve dell’altro.

Sappiamo che noi prima di tutto siamo persone che ci nutriamo dello stesso amore e che abbiamo preso forza dalle stesse attenzioni e dagli stessi gesti, che i nostri ragazzi ci chiedono, allora, se il nostro è un lavoro che si fonda sulla cooperazione e su una base vocazionale, chiediamo di essere visti come persone prima che come educatori e di fronte a questo di non essere lasciati soli in primis da chi ci governa e da chi ci permette di lavorare.
In questo momento viviamo il forte rischio riscontrabile in tutte le dimensioni di emergenza. Parliamo del rischio della chiusura, del togliere invece che di aggiungere, di essere visti come possibili untori. Parliamo del rischio di diventare isole e isolati mentre quello di cui c’è bisogno è di avere di più del consueto, del pensato e dell’agito in precedenza.
Questo è un appello a quella parte, che è in ognuno di noi, che ha bisogno d’amore.

 

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