L'housing sociale può essere uno dei motori di uscita dalla crisi?
18 Mag 2016

di Maurizio Trabuio
Direttore di Fondazione La Casa Onlus  

Sono ormai dieci anni che il mondo occidentale è entrato in una grande crisi che si rappresenta in molti modi diversi. Tutti gli osservatori sono concordi nell’attribuire al fenomeno dell’insolvenza dei mutui subprime americani la causa scatenante della situazione attuale di crisi che a partire dalla finanza si è estesa alla produzione, al lavoro, agli assetti istituzionali, per coinvolgere il sistema delle relazioni personali e familiari; per la sua gravità e la sua persistenza questa crisi sta provocando cambiamenti anche al concetto stesso di fiducia, intesa come significato semantico.

I subprime erano dei mutui immobiliari che venivano concessi, senza adeguate garanzie, a persone dal reddito fragile e discontinuo. Queste persone, che alle prime difficoltà lavorative e personali hanno cessato di rimborsare le rate del mutuo, hanno messo in crisi un sistema perché era sbilanciato, avido, frettoloso e soprattutto ingiusto.

Da qualche autorevole tribuna si sente dire che una delle possibilità di uscita dalla crisi deve essere ricercata e promossa dalla riattivazione del mercato dell’edilizia  ed in particolare dal settore dell’housing sociale che nell’immaginario collettivo evoca un doppio beneficio: si da una casa a chi ha bisogno e si fanno lavorare le persone.
In Italia è una costante storica ormai, quella di ricercare la soluzione dei problemi occupazionali cercando di combinare questo doppio beneficio: tutti ricordano infatti il “Piano Fanfani” che era la definizione giornalistica della legge 28 febbraio 1949, n.43 con cui il Parlamento approvò i "Provvedimenti per incrementare l'occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori".

Per quanto dovremmo a lungo precisare cosa si intende per housing sociale, mi sento comunque di dire che non sia ragionevole attendersi dei grandi risultati sul piano occupazionale dagli investimenti dedicati all’housing. D’altra parte, certamente, non possiamo attenderci che ventimila o quarantamila alloggi che verranno immessi sul mercato dell’affitto a canoni medi di 500 euro/mese possano in qualche modo scalfire la “dura scorza” del disagio abitativo in Italia.   
Come la finanza americana, e quella mondiale di conseguenza, è caduta perché si era appoggiata sui più fragili, dando il via alla grande crisi, così ora rischiamo di scivolare in un tempo di infinita attesa di qualcosa che non può arrivare.

Il lavoro che non c’è rende difficile e scarso il reddito alle fasce più deboli, che vengono paralizzate nella situazione di difficoltà, e quindi non possono comprare casa, non possono aggiustarla, non possono prenderne in affitto una più grande, più bella, più centrale, più vicina, più comoda, ecc. 
La casa e il lavoro, elementi primari ed essenziali per la vita di ogni persona e di ogni comunità sono inscindibilmente connessi e interdipendenti, ma meritano ciascuno una attenzione ed una cura assoluta e puntuale per rispondere efficacemente alle attese e ai bisogni di ciascuno.

Il lavoro può essere creato da una politica industriale rigorosa nel premiare il merito, la produttività, l’innovazione, l’internazionalizzazione, e l’impronta ecologica. Attraverso questi parametri, sicuramente anche l’housing sociale, nella fase dell’accrescimento dei volumi abitativi dedicati, potrà trovare modo di esprimere la sua rilevanza e la sua dote di apripista all’innovazione.

La casa, nella sua moderna accezione di housing sociale, deve essere pensata come servizio che favorisce le relazioni fra persone e sistemi urbani, permettendo la riallocazione di risorse economiche e sociali che sole possono rispondere ai bisogni di tutti, nell’epoca della grande crisi.

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