di Deborah Biazzi
Esperta di Servizi per l’orientamento, la formazione, il lavoro
Consulente per le attività di orientamento rivolte agli under 35 presso il Servizio Promozione del Lavoro del Comune di Verona
I NEET sono i giovani che non studiano, non lavorano e non sono impegnati in percorsi formativi. Questo famigerato acronimo è comparso per la prima volta nel 1999 in un articolo inglese dal titolo Social exclusion and the transition from school to work: the case of young people Not in Education, Employment, or Training (NEET)1. Prima di allora milioni di giovani vivevano, più o meno spensierati, la loro transizione all’età adulta senza sapere che quelle quattro lettere li avrebbero presto ridefiniti, per la prima volta in Europa, come problema sociale.
In Italia, con triste record, è NEET un giovane su 3 di età compresa tra i 15 e i 34 anni, la fascia più colpita è quella tra i 18 e i 24 anni, 1 inattivo su 4 ha esperienza di abbandono scolastico.
In effetti, la parola NEET, col suo suono così spiccio e metallico, sembra una perfetta scorciatoia definitoria per arginare l’inquietudine vissuta da chi, oggi, opera nei servizi per il lavoro alla ricerca di pratiche di senso e concrete opportunità in favore di giovani che appaiono sempre più polarizzati:
NEET è un termine che vorrebbe accomunare milioni di ragazzi e ragazze però sulla base di ciò che non sono, non fanno ed è loro venuto a mancare. Ma l’operazione appare fuorviante. Questa variegata “millenial generation” si presenta a noi anche capace di desideri e tensioni comuni: essere autonomi, mettersi alla prova, lasciare traccia, imparare tramite strumenti e contesti di apprendimento non tradizionali, sentirsi impegnati, interagire con figure adulte che possano rappresentare validi riferimenti umani e professionali.
In attesa che: lotta alla dispersione, alternanza scuola lavoro, Jobs Act, ripresa economica e nuovi modelli di sviluppo facciano la loro parte, per migliorare l’offerta dei nostri servizi per giovani “inattivi” potremmo intanto impegnarci a:
Un’ultima riflessione: i ragazzi inattivi che incontriamo tendono a rifiutare ogni riferimento al paradigma (tutto novecentesco) di “progetto professionale lineare e progressivo” liquidandolo come “vaga promessa” legata ad un mondo quasi sconosciuto. Essi si mostrano piuttosto interessati ad immediate occasioni di fare esperienza entrando in connessione, con leggerezza e velocità, con alcuni pezzi di mondo. Così, paiono disposti ad interagire solo con ciò che incrocia, qui ed ora, la loro traiettoria. Sono biografie in cui possono convivere fonti di reddito e appartenenze multiple senza gerarchie e in cui, rispetto al lavoro, assumono grande importanza anche le motivazioni estrinseche. Appare dunque urgente ripensare i nostri percorsi di workfare intorno a questa irreversibile mutazione antropologica e di contesto.
La partita in gioco è un “passaporto delle competenze per la vita e i lavori” per le nuove generazioni e le imprese, senza mai rinunciare a sentirci tutti parte di un sistema che mantiene le proprie responsabilità.
Note:
1 Esclusione sociale e transizione scuola lavoro: il caso dei giovani non impegnati in percorsi di istruzione, lavoro o formazione;
2 La Raccomandazione del Consiglio dell’Unione Europea del 22 aprile 2013 sull’istituzione di una “Garanzia per i Giovani” invitava gli Stati a garantire ai giovani con meno di 25 anni un’offerta qualitativamente valida di lavoro, di proseguimento degli studi, di apprendistato o di tirocinio o altra misura di formazione entro quattro mesi dall’inizio della disoccupazione o dall’uscita dal sistema di istruzione formale. Per approfondimenti: www.garanziagiovani.gov.it sezione: monitoraggio e valutazione.